Sono
trascorsi più di tre anni dal Jobs Act e dai decreti attuativi che
hanno radicalmente peggiorato la materia degli ammortizzatori sociali
attraverso una riduzione della durata, degli importi, della
ridefinizione delle causali e della possibilità di ricorso per
alcuni particolari casi di crisi di impresa, determinando la
restrizione nell’utilizzo degli stessi ammortizzatori sociali.
In
diverse situazioni, soprattutto a causa della lentezza della ripresa
produttiva, molte lavoratrici e lavoratori dei diversi contesti
lavorativi non hanno accesso ad una copertura adeguata e, nelle
situazioni di crisi, non trovano la necessaria tutela rispetto al
rischio del licenziamento.
Una
delle profonde anomalie riguarda il fatto che il ricorso ai
licenziamenti, sia quelli individuali ma soprattutto quelli
collettivi, da parte delle imprese ha un costo inferiore rispetto
all’utilizzo degli ammortizzatori sociali di tipo conservativo.
Tutto questo porta le imprese ad un calcolo di mera convenienza
economica a discapito dell’occupazione.
Inoltre,
il definitivo superamento dell’istituto dell’indennità di
mobilità, previsto dalla legge 92 del 2012, le nuove regole in
materia di età pensionabile entrate in vigore dal 2012 e gli
interventi in materia di cassa integrazione, hanno sensibilmente
ridotto lo spazio di azione delle politiche passive del lavoro. I
recenti strumenti introdotti dalla legge di Stabilità 2018, pur
offrendo in alcuni casi uno spiraglio di soluzione, non sono adeguati
alle necessità.
Occorre
sottolineare come le misure introdotte dalla Legge di stabilità
abbiano
carattere di temporaneità e limitino la loro portata
a particolari situazioni, con riguardo a specifici limiti
dimensionali o a ubicazione territoriale delle aziende, non
rispondendo ad una esigenza di universalizzazione degli
ammortizzatori, con ciò causando situazioni di disuguaglianza tra
lavoratori che si trovino nelle stesse condizioni.
Anche
la NASPI non offre una risposta universale, come avrebbe dovuto
essere, a causa delle modalità di calcolo sul requisito
contributivo, da cui dipende la durata. Il tutto aggravato da un
trattamento economico che progressivamente si riduce e dallo scomputo
dalla durata dei periodi fruiti nel precedente quadriennio, che
colpisce soprattutto i lavoratori discontinui. Tutto questo rischia
di presentare gravi conseguenze per l’occupazione.
Cassa
Integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO)
Gli
interventi sull’istituto della cassa integrazione ordinaria, non
trovano alcuna giustificazione se si considera che il fondo di questo
istituto, presenta negli anni un risultato economico in attivo tra la
contribuzione versata e i trattamenti erogati. Ancora più
ingiustificata è la disposizione contenuta nel Dlgs. 148/2015 che
riduce per le imprese la contribuzione per il finanziamento della
Cigo mediamente del 10%, determinando per le stesse un risparmio e ai
lavoratori una più ridotta copertura in caso di crisi temporanea.
Tale riduzione, in molti casi, rende praticamente inutilizzabile
questo istituto per le 52 settimane previste in corso d’anno,
avendo anche introdotto il limite di un terzo delle ore ordinarie
lavorabili nel biennio mobile, come ore di Cigo autorizzabili.
Ancora, la cancellazione delle Commissioni territoriali e spesso
l’interpretazione burocratica delle norme da parte delle Direzioni
territoriali, riduce ulteriormente per le imprese e i lavoratori
l’utilizzo dello strumento della Cigo; sono sempre più frequenti i
casi di richieste respinte ingiustificatamente da parte dell’INPS.
La scelta, che sempre più spesso adottano le imprese, per evitare
contenziosi interpretativi, è quella di un uso improprio e
sostitutivo di istituti contrattuali, come ferie e permessi
retribuiti, in luogo della Cigo.
Cassa
Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS)
Nei
confronti dell’istituto della Cassa integrazione straordinaria sono
intervenute misure ancora più pesanti, a partire dalla cancellazione
della possibilità di utilizzo in tutti i casi di cessazione anche
parziale di attività o di fallimento di impresa. Tali limitazioni
non hanno fatto altro che incrementare il numero dei lavoratori
licenziati.
Anche
per questo istituto, come per la cassa integrazione ordinaria, dallo
scorso settembre è intervenuta la pesante limitazione delle ore
autorizzabili, solo nella misura pari all’80% delle ore lavorabili
nell'unità produttiva nell'arco di tempo di cui al programma
autorizzato.
Se
pur per gli anni 2018 e 2019 viene introdotta, dalla Legge di
stabilità, la possibilità di chiedere una proroga della CIGS di 12
mesi per ristrutturazione e di 6 mesi per crisi aziendale, concessa a
livello ministeriale in aziende con almeno 100 dipendenti e rilevanza
economica strategica anche a livello regionale, ciò in deroga alla
durata massima complessiva di 24 mesi in un quinquennio mobile, il
provvedimento, limitato nel tempo e con copertura economica definita,
non risulta utilizzabile per tutti i lavoratori e per tutte le realtà
aziendali. 4
Quanto
sopra costituisce una prima modifica, sia pur limitata e selettiva,
rispetto alla normativa introdotta dal Jobs Act.
Il
limite massimo di 24 mesi nel quinquennio mobile, previsto dal Jobs
Act, in molti casi non consente di risolvere le situazioni aziendali
che determinano una riduzione dei livelli occupazionali.
Lo
stesso passaggio dal quinquennio fisso al quinquennio mobile, riduce
per le singole aziende la possibilità di utilizzare la CIG. Infine,
l’aggregazione in tre causali (crisi aziendale, ristrutturazione e
contratti di solidarietà) delle precedenti ipotesi di intervento
della CIGS e l’esclusione dell’ipotesi di cessazione
dell’attività aziendale, peggiorano ulteriormente il quadro
complessivo.
Le
criticità riguardano in modo particolare i casi di ristrutturazioni
aziendali, in particolare nel caso in cui le stesse siano necessarie
a rispondere alla evoluzione tecnologica imposta da industria 4.0.
Pertanto
riteniamo necessario prevedere criteri non dimensionali, ma riferiti
ai tempi necessari per ristrutturazioni e riconversioni, di ricorso
alla proroga della CIGS anche per aziende con meno di 100 dipendenti.
E’
necessario inoltre estendere a favore di tutte le imprese la norma
anche nel caso di cessazione di attività conseguente ad un periodo
di crisi e in presenza di concrete prospettive di cessione di
attività anche parziale, al fine di esperire tutte le possibilità
di subentro di un nuovo soggetto industriale per favorire la
continuità produttiva.
Accordo
di Ricollocazione
Al
fine di limitare il ricorso al licenziamento all’esito
dell’intervento straordinario di integrazione salariale, nei casi
di riorganizzazione ovvero di crisi aziendale per i quali non sia
espressamente previsto il completo recupero occupazionale, la
procedura di consultazione può concludersi con un accordo che
preveda un piano di ricollocazione, con l’indicazione degli ambiti
aziendali e dei profili professionali a rischio di esubero.
L’introduzione
dell’accordo di ricollocazione rischia nel concreto che la fase di
esame congiunto tra le parti, ancor prima dell’utilizzo dello
strumento di cassa integrazione speciale, individui i possibili
esuberi, favorendo successivamente comportamenti aziendali rivolti ad
una loro collocazione esterna, anziché favorire un piano di
ricollocazione interna anche attraverso percorsi formativi. 5 Questa
norma, tra l’altro, è fortemente in contrasto con la Legge
223/1991 che in caso di mobilità consentiva alle parti di trovare
soluzioni alternative ai licenziamenti attraverso un confronto di 75
giorni all’interno della stessa procedura sindacale
Contratti
di solidarietà
In
questi anni questo strumento ha consentito, nei casi di crisi di
impresa, la salvaguardia di migliaia di posti di lavoro e il
mantenimento di un reddito più consistente rispetto agli altri
ammortizzatori e nel contempo una gestione comunque flessibile per le
imprese.
Le
modifiche introdotte hanno reso il contratto di solidarietà una
delle causali della di cassa integrazione straordinaria, limitando
pesantemente il suo utilizzo, ma soprattutto la copertura economica
per i lavoratori. È necessario modificare l’attuale norma che
rende in molti casi inapplicato questo strumento, in particolare per
quanto riguarda la percentuale di riduzione media delle ore lavorate,
rimodulando il trattamento economico per i lavoratori in solidarietà.
Costi
licenziamento
A
decorrere dal 1º gennaio 2018, per ciascun licenziamento effettuato
nell’ambito di un licenziamento collettivo da parte di un datore di
lavoro tenuto alla contribuzione per il finanziamento
dell’integrazione salariale straordinaria, l’aliquota percentuale
è innalzata all’82 per cento. Negativo, comunque, rimane l’aumento
del contributo addizionale, direttamente proporzionale al periodo di
CIGS usufruito (9%, 12% e 15%), introdotto dal Jobs Act. Ciò rende
poco appetibile il ricorso alla CIGS delle aziende che, in molti
casi, preferiscono ricorrere al licenziamento, più conveniente
nonostante l’aumento del suo costo.
Aree
di crisi complesse
Per
le aree di crisi complessa sono state introdotte alcune misure
finalizzate alla concessione di una proroga della CIG, per un periodo
massimo di 12 mesi, e la possibilità della concessione di un
trattamento di mobilità ordinaria o in deroga della durata massima
di 12 mesi, a favore dei lavoratori che cessino la mobilità nel
semestre gennaio-giugno 2018. Entrambe gli interventi non possono
protrarsi oltre il 31 dicembre 2018.
Tali
misure, pur positive, non risolvono le criticità di queste aree che,
proprio per la grave situazione socio-economica in cui versano, sono
state definite ed ufficialmente riconosciute come Aree di Crisi
Complessa. La possibilità di prolungare 6 di 12 mesi gli
ammortizzatori, non è sufficiente al completamento dei piani di
ristrutturazione e riorganizzazione delle imprese in crisi e a
garantire la riprese dell’attività produttiva e la salvaguardia
dei livelli occupazionali. Tutto ciò è reso ancora più complicato
dalla totale assenza di politiche attive che possano affiancare
quelle passive.
Politiche
attive
La
valutazione negativa sulle politiche attive del lavoro, deriva dal
fatto che tutti gli interventi degli ammortizzatori (CIGS, ADR, ecc.)
presuppongono un efficace funzionamento delle politiche attive (ANPAL
e Centri per l’impiego) che non si è a tutt’oggi realizzato,
vanificando l’utilità degli ammortizzatori e l’attività
contrattuale che sindacati e datori di lavoro svolgono, al fine della
tutela dei livelli occupazionali.
Agevolazioni
all'esodo pagate dall'impresa
Per
affrontare gli impatti occupazionali derivanti dalla transizione dal
vecchio al nuovo assetto del tessuto produttivo limitatamente al
periodo 2018-2020 è stato elevato a 7 anni il periodo di uscita
anticipata, che consente ai dipendenti di anticipare l’uscita dal
lavoro, legata a motivi di esubero. Ovviamente questo strumento ben
difficilmente potrà essere utilizzato se non dai grandi gruppi,
visto il costo che il datore di lavoro dovrà sostenere.
Fondo
di integrazione salariale
Sempre
in tema di mancata universalizzazione degli ammortizzatori sociali,
in costanza di rapporto di lavoro, va segnalata la completa
esclusione delle aziende che hanno fino a 5 dipendenti e che non
rientrano nel campo di applicazione della CIG per attività o limite
dimensionale e che non possono accedere al FONDO DI INTEGRAZIONE
SALARIALE. Inoltre l’accesso al FIS, oltre a presentare ancora
discrepanze procedurali nei territori, non viene ritenuto conveniente
dalle aziende, che anche in questo caso spesso optano per i
licenziamenti.
Cooperative
ex Lege n. 240/1984
Un
ulteriore elemento di criticità è costituito dal settore di imprese
cooperative e loro consorzi che esercitano attività di
trasformazione, manipolazione e commercializzazione, disciplinato
dalla Legge 240/1984 art. 3, rientranti nella previdenza agricola,
che dopo la fine della mobilità non hanno altra copertura se non la
CIG, in quanto esclusi dalla NASpI (il D.Lgs. 22 del 2015 esclude
dalla stessa gli operai agricoli a tempo determinato ed
indeterminato).
Settore
della Pesca
Per
quanto riguarda il settore della Pesca, le misure introdotte dalla
Legge di Stabilità 2018 , come sostegno ai lavoratori in caso di
sospensione dell’attività lavorativa derivante da misure di
arresto temporaneo obbligatorio, non risultano adeguate alle reali
esigenze, sia dal punto di vista quantitativo che dal punto di vista
strutturale, in quanto non prevedono soluzioni definitive (indennità
giornaliera onnicomprensiva di 30 euro , già riconosciuta per il
2017 dall’art. 1, c. 346, della L. 232/2016 per ciascun
lavoratore). Tali lavoratori restano pertanto privi di un
ammortizzatore strutturato nei casi di sospensione dell’attività
lavorativa.
L’attuale
quadro rende evidente l’inadeguatezza degli strumenti per far
fronte alle crisi aziendali. Il limite di durata della CIG, il limite
di durata della NASPI e il contemporaneo aumento dell’età
pensionabile, producono una conseguenza particolarmente drammatica:
lavoratori in età avanzata espulsi dal mondo del lavoro senza il
diritto alla pensione. A ciò si aggiungono situazioni di lavoratori
che ricevono trattamenti differenziati pur avendo analoghe condizioni
e ambiti parzialmente o totalmente esclusi dal sistema degli
ammortizzatori. Occorre risolvere ciascuna delle criticità
evidenziate dall’esperienza concreta, con una logica di coerenza
interna, che sappia tener conto delle caratteristiche del tessuto
produttivo del nostro Paese.
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